La luce del sole contro i “forever chemicals”
Una speranza per liberarci dai PFAS

Da qualche anno i PFAS – quelle sostanze perfluoroalchiliche ribattezzate “forever chemicals” perché praticamente indistruttibili – sono entrati nelle cronache. Si trovano ovunque: nei rivestimenti antiaderenti, nei tessuti impermeabili, nelle schiume antincendio, perfino nell’acqua che beviamo. La loro resistenza, che li ha resi utili all’industria, è la stessa che li rende oggi un incubo ambientale e sanitario. Non si degradano facilmente, si accumulano negli organismi e sono legati a diverse patologie.
La domanda è semplice ma cruciale: come possiamo liberarci dei PFAS?
E qui entra in scena un alleato insospettabile: la luce del sole.
Il potere della luce
I chimici lo chiamano fotocatalisi: in pratica si usano materiali speciali (fotocatalizzatori) che, colpiti dalla luce, generano piccolissime cariche elettriche in grado di attaccare molecole altrimenti indistruttibili. È un po’ come se il sole, attraverso questi materiali, diventasse un bisturi chimico capace di spezzare i legami più forti della natura, quelli tra carbonio e fluoro che rendono i PFAS così persistenti.
Non si tratta di fantascienza. Negli ultimi anni i laboratori hanno mostrato che con ossidi di bismuto, nanomateriali a base di carbonio, o addirittura catalizzatori organici, la luce visibile può davvero smontare le molecole dei PFAS, trasformandole in prodotti innocui come anidride carbonica e fluoruro.
E c’è di più: in alcuni esperimenti si è riusciti a farlo con la semplice luce del sole o con lampade a LED a bassissimo consumo. Un team, ad esempio, ha utilizzato nanofibre di cellulosa rivestite di ossido di zinco in un piccolo reattore esposto al sole, dimostrando che è possibile degradare i PFAS mentre l’acqua scorre in continuo. Un altro gruppo ha ottenuto oltre l’85% di abbattimento in poche ore grazie a materiali a base di ferro e carbonio attivati da luce visibile.
Perché non è ancora nelle nostre case?
La strada però non è tutta in discesa. Questi sistemi funzionano bene in laboratorio, con acqua “pulita” e concentrazioni controllate. Quando si passa ad acque reali, piene di sali, fanghi e altre sostanze organiche, l’efficacia cala. Inoltre, i fotocatalizzatori devono essere stabili, economici e non tossici: alcuni dei materiali più promettenti, come i solfuri contenenti cadmio, pongono evidenti problemi ambientali.
E poi c’è il tema della scalabilità: trasformare un esperimento da beuta a impianto capace di trattare migliaia di litri al giorno richiede tempo, investimenti e ingegneria.
Perché vale la pena investirci
Nonostante i limiti, questa linea di ricerca ha qualcosa di affascinante: usare il sole, una risorsa gratuita e inesauribile, per smontare gli inquinanti più tenaci del nostro tempo. È un’idea quasi poetica: la stessa luce che ci scalda e ci dà vita può anche aiutarci a liberarci di ciò che abbiamo prodotto in eccesso.
C’è una componente di giustizia simbolica. Per decenni i PFAS ci hanno offerto comodità quotidiane – pentole che non si attaccano, giacche che non si bagnano – ma al prezzo di un’eredità tossica. Vederli finalmente “sciogliersi” alla luce del sole restituisce un senso di equilibrio.
Il futuro che immaginiamo
Gli scienziati sognano impianti modulari, basati su pannelli o membrane fotocatalitiche, da affiancare agli attuali sistemi di trattamento. Magari un giorno i nostri acquedotti, oltre a filtrare l’acqua, avranno superfici attivate dal sole che la purificano dai contaminanti invisibili.
Non sarà una bacchetta magica, ma potrebbe diventare un tassello importante in una strategia più ampia: limitare l’uso dei PFAS, bonificare le aree contaminate e proteggere le generazioni future.
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